Testimonianze di insegnanti

Testimonianze di insegnanti

In Italia mancano dei testi che riguardano le esperienze e le problematiche dei docenti che si confrontano con il problema degli allievi in lutto. Qui abbiamo inserito alcune testimonianze ricevute che pensiamo possano esservi utili:

Nella mia carriera di insegnante di scuola primaria mi è capitato una sola volta di avere in classe una bambina che aveva perso il papà circa due anni prima di cominciare la prima elementare. Era un papà grande, aveva avuto già altri figli da un precedente matrimonio, B. era la più piccola di tutti.

B. era una bambina incredibilmente responsabile, educata, matura, diligentissima, con uno sguardo malinconico e poca voglia di esprimersi, svolgeva volentieri tutte le attività proposte, apprendeva facilmente, e è stata costante durante tutte le elementari.

Nel corso del tempo tra di noi si è stabilito un rapporto di fiducia, tacito e rispettoso. Io non l’ho mai trattata con particolare riguardo, lei non si è mai aspettata nulla di particolare da me.

Come sempre ho affrontato il tema della morte leggendo dei libri, parlando con i bambini in modo naturale, cercando di farli esprimere sull’argomento come potevano, a seconda dei giorni, delle cose che accadevano nella nostra piccola comunità (è capitato che qualche nonno morisse e ne parlassimo insieme) ma B. non partecipava mai alle conversazioni, non raccontava la sua esperienza in pubblico. Una volta alla fine di una lettura (Un paradiso per il piccolo orso), venne vicino a me, a ricreazione, mentre gli altri facevano una gran confusione e guardandomi negli occhi preoccupata mi disse: “maestra, mio padre è morto”. La presi come una dichiarazione di fiducia, una richiesta di alleanza, un patto di riservatezza e le risposi che lo sapevo ma che non doveva preoccuparsi, perché non l’avrei mai detto a nessuno se lei non lo avesse voluto. Lei non rispose ma sorrise, mi sembrò molto sollevata. Non tornammo più sull’argomento per molto tempo e B. non ne parlò mai di fronte ai compagni anche se partecipava ad altre discussioni con oculata intelligenza. Verso la fine del ciclo elementare un giorno si avvicinò a me e mi disse: “Quando gli altri parlano dei loro padri io sto malissimo, mi sembra che lo facciano apposta, perché io non posso dire niente, io non so niente, io non me lo ricordo”. Fu come una pugnalata, capii all’improvviso che cosa avesse provato per tutto quel tempo, quanto la sua “diversità” le pesasse, quanto non sapesse come sentirsi perché forse il suo dolore non era tanto il dolore per la mancanza di una persona cara, vicina (doveva avere circa 3 anni e mezzo quando è morto e lui era malato da tempo) ma un dolore indotto dalle circostanze, dall’atmosfera e lei non aveva idea di come trattarlo. Non ricordo bene come le risposi ma certamente lei sentì che capivo perché rimase a lungo vicino a me prima di tornare a giocare.

Arrivò l’ultimo giorno della V elementare, come sempre eravamo tutti tristi di lasciarci, ci fu la festa a scuola e poi arrivò il momento dei saluti, la mamma di B. si avvicinò a me e mi disse che B. era in bagno e mi chiedeva di raggiungerla. Entrai, aveva una faccia che era un misto di gratitudine, commozione, dolore, ci abbracciammo e piangemmo tutte e due per il tempo necessario a lasciarci, forse dieci minuti, forse un quarto d’ora, non so dirlo ma fu sicuramente il più lungo abbraccio in lacrime che io abbia mai scambiato con qualcuno. Non ci dicemmo neanche una parola, poi la mamma si fece avanti e lentamente ci allontanammo.

Pensai a lungo a questo addio e a tutto il nostro silenzioso ed essenziale rapporto di cinque anni. Forse B. mi aveva sentito vicina per il fatto che non avevo mai forzato la mano, che le avevo dimostrato di essere dalla sua parte e, pur non capendo del tutto che cosa provasse, avevo rispettato la sua confusione.

Ogni bambino è un mondo a sé, difficile capire cosa sia meglio fare. Quella volta con B. forse avevo indovinato la strada, eravamo in sintonia si vede.

Sono una maestra, lavoro da trent’anni nella Scuola dell’Infanzia con bambini dai tre ai cinque anni.

Ho sempre pensato che con i bambini si debba parlare in maniera chiara e semplice di tutto quello che avviene nella vita; non nego che nei primi anni del mio lavoro mi sono trovata in difficoltà ad affrontare il tema della morte, pensando che il dolore della perdita sia un dolore troppo grande da sopportare per bambini così piccoli e non avendo il coraggio di affrontare questo tema.

Il mio pensiero non è cambiato, credo ancora che la perdita di un genitore procuri un dolore grande, ma mi sono resa conto, nel tempo, che i bambini sono in grado di capire il concetto della morte e sono capaci di parlarne con naturalezza.

Naturalmente spetta all’adulto di riferimento cogliere l’occasione per farli parlare, ascoltarli e aiutarli a trovare delle risposte.

Quest’anno sto lavorando con bambini di quattro anni, tra loro c’è un bambino che ha perso il papà un anno fa dopo una lunga malattia.

La settimana scorsa abbiamo letto una storia in cui si parla di una bambina orfana, Tiffany, e, discutendo con i bambini sul significato di questa parola, abbiamo affrontato l’argomento della perdita.

Parlare insieme, in gruppo, dopo la lettura di una fiaba diventa naturale e facile anche discutere della morte.

Di seguito la trascrizione della conversazione.

Insegnante: Questa bambina era orfana. Che cosa significa?
L. M.: Non aveva né il babbo né la mamma.
Ins.: Il suo babbo e la sua mamma erano morti? Ma cos’è la morte?
L. M.: Vuol dire che si muore. O si uccidono. O si muore perché si è vecchi.
G.: Oppure perché siamo malati.
L. M.: Tipo infezioni. Se non riesci a curarle neanche all’ospedale, muori.
P.: Tiffany era scappata dall’orfanotrofio.
Ins.: E cos’è l’orfanotrofio?
P.: Dove vanno i bambini che non hanno la mamma e il babbo.
Ins.: I genitori di Tiffany erano morti. Anche il papà di Elia è morto, vero Elia? Che cosa è successo?
E.: Si è ammalato e poi è andato all’ospedale. E poi è salito in cielo.
Ins.: Che cosa significa morire?
G.: Che uno non c’è più e va in cielo e poi quando è passato un po’ di tempo torna giù.
E. M.: Non è così. Quando uno è andato in cielo, non ritorna più giù.
D.: Però se poi l’uomo non riesce a tornare giù, è morto davvero.
G.: Io avevo una nonna che è morta proprio quando era il mio compleanno di quattro anni. Era molto grave e non ce l’hanno fatta a curarla.
E. M.: Una nonna è andata in cielo.
T.: La morte è quando uno muore. Vuol dire andare in cielo e non ritornare più.
L. L.: Sai che prima avevo tre nonni e poi uno mi s’è morto?
J.: Quando io non ero ancora nato, la mia mamma aveva un nonno, si è ammalato tantissimo ed è andato in cielo.
G.: Io ho tante persone che sono morte da me. Un nonno, una nonna, un cane.
T.: Anche i miei bisnonni sono morti.
Ins.: Anch’io avevo un gatto da tanti anni e l’anno scorso è morto. E quando le persone o gli animali muoiono, non si muovono più.
D.: Poverini.
Ins.: Quando si muore, non si respira più.
J.: Però quando siamo vivi, respiriamo.
C.: Lo sai che davanti alla mia casa c’era un uccellino che era morto.
C.: Anche il mio gatto era morto e la mia mamma piangeva.
Ins.: Perché si piange secondo voi quando qualcuno muore?
G.: Perché ci manca.
F.: Perché si vuole coccolare.
Ins.: Perché, come ci si sente? Io per esempio quando è morto il mio gattino piangevo perché ero triste. E forse anche la mamma di Christian.
D.: Ma allora anche i grandi piangono!
M.: Sì, si può piangere quando si vuole.

Dalle parole dei bambini ho capito che molti di loro avevano già trovato delle risposte in famiglia sull’argomento (ammalarsi tantissimo, andare in cielo, tornare, non tornare più, piangere).

Durante la conversazione i bambini erano tranquilli, discutevano tra loro e con gli insegnanti in maniera naturale e costruttiva.

Nel corso dell’anno sicuramente capiteranno altre occasioni di parlare di quest’argomento, spero che il gruppo dei bambini diventi capace di capire che la morte è naturale e definitiva e di affrontare la tristezza e il dolore della perdita.

Classe 2^ B, 1998, ventidue tra bambini e bambine; un bel gruppo che cerco di curare e far crescere non solo imparando a leggere e scrivere ma avviandoli anche a trovare e dire le” parole del cuore”, garantendo loro di essere ascoltati e presi sul serio nell’ impresa di diventare se stessi.

Otto anni… un’età magica: né piccoli, né così grandi da avere malizie.

Siamo vicini alla Pasqua e siamo impegnati a preparare un bel biglietto di auguri per mamma e papà. La primavera è nell’aria: colori, profumi, vediamo le rondini dalla finestra dell’aula.

La Domenica delle Palme, una telefonata la mattina presto, mette fine a tutto ciò: perché poi niente sarà più lo stesso, neanche il profumo della primavera. Anna è morta.

Dopo lo sgomento personale, il pensiero angoscioso dei “miei” bambini: come dire loro una cosa così… Anna era a scuola un attimo fa, ci sono le sue cose, i suoi disegni appesi, il suo biglietto augurale pronto. La collega con la quale lavoro è ancora più sconvolta di me, credo, perché ripete luoghi comuni sulla morte che me la allontanano.

Con la mamma rappresentante di classe decidiamo che ogni famiglia si regolerà su come dare la notizia al proprio bambino, gestendo così il primo impatto con la morte secondo lo stile e i valori familiari, accogliendo le reazioni e il dolore tra le affettuose mura di casa.
Il lunedì tutti in cerchio, la collega di matematica, l’insegnante di religione e io.

Ricordo che cercavo cautamente di far venir fuori da loro cosa avevano veramente capito di quell’inconcepibile avvenimento. Ecco le loro parole, gli interrogativi ai quali lasciai che si rispondessero tra loro, ognuno portando il proprio vissuto famigliare.
Ricordo che inaugurai la frase: “C’è chi pensa che… chi invece crede che…“. Ogni modalità aveva pari dignità.

“Lo sai maestra che Anna è morta? Ma è vero?”
“Mi sembra tutto un sogno”
“Perché proprio lei che era così buona?”
“Cosa aveva fatto di male?”
“Dove è adesso?”
Le mie colleghe avevano trovato una storia di un angelo che accompagnava Anna.

Io guardavo quelle creature, ferme, piene di stupore, che mi osservavano per capire dove potevamo approdare: perché sì, a quell’età la maestra è veramente un riferimento. Credo che dissi loro, con gli occhi pieni di lacrime: “Siamo tutti tristi, possiamo piangere e consolarci tra noi. Anche se sono grande piango anch’io, non spaventatevi. Poi passa.”

E ci fu un bel momento di lacrime e abbracci. Il primo di tanti altri. Poi, al suono di una dolce musica, feci la proposta di disegnare ciò che volevano, sui fogli, Anna era già un angelo con piccole ali azzurre, i piedini sollevati da terra, D. la vedeva correre felice nei pascoli del cielo, i biondi capelli al vento, circondata da cavalli selvaggi. Qualcuno disegnava “altro” come per sfuggire la realtà. Cominciammo IL LIBRO DI ANNA che avrebbe raccolto tutte le nostre produzioni e che avremmo dato, dopo qualche anno, alla mamma di Anna.

I bambini capirono che con me si poteva parlare dell’accaduto e piangere se le lacrime premevano… con l’altra maestra non lo fecero mai, anche se non ci fu un divieto vero e proprio, avevano intuito che non era possibile (lei mi disse che non reggeva l’argomento…).

Nei delicati giorni successivi, anche senza apparenti legami logici, l’“Argomento Anna” tornava fuori. Ecco stralci di conversazioni:

M:“Non voglio stare con L. perché parla sempre di morti, non voglio sentire questi discorsi!”
L: “Con chi parlo io allora di queste cose, tra me e me?”
MAESTRA: “Puoi venire a parlare con me.”
R: “Anch’io ho paura, mi sogno la Anna… E se viene la notte? È tutta vestita di bianco, vedo i suoi piedi, mi tocca i piedi.”
M: “Io ho sognato Anna, era risorta, ritornata; aveva un vestito bianco i piedi nudi e una grande luce attorno.”
L: “Io ho sognato che eravamo ai giardini, giocavo con lei, c’erano uomini cattivi che volevano spararle; io l’ho difesa ma ci hanno uccisi e siamo volati in cielo tutti e due.”
P: “Ho paura che lei venga dalla stanza vicina.”
Coro di voci: “Anch’io!”
D: “Non bisogna aver paura degli angeli!”
E: “Ma è vestita o nuda? (non si capisce se al momento della sepoltura o ora dove si trova ).”
F: “Le hanno messo un bel vestito?”
G: “Ma l’ha scelto lei?”
Coro di voci: “Ma no! ”
V: “Ho sognato la tomba? bara? (il significato dei sostantivi non è chiaro…)”
S: ” Ho sognato che l’ho incontrata ai giardini e le ho detto che lei era morta. Allora lei è volata in cielo!”
K: “Ho paura che venga la notte, dalla camera dei miei genitori.”
O: “Forse Anna è qui, nel suo banco con noi.”

Ho, a suo tempo, titolato questi appunti “Tra sogni e realtà” perché così li ho percepiti e lasciati essere. Ho infatti operato la scelta di offrire ai bambini uno spazio di attento, interessato e affettuoso ascolto, lasciando alle famiglie eventuali definizioni di significato. Dall’opportunità di dialogo tra pari ciascuno poteva arricchirsi di immagini nuove, consolidando la competenza di ascoltare e non giudicare. Ciascuno coi suoi tempi era aiutato a definire l’accaduto.

L’anno successivo venne spontaneo iniziare le attività con Anna: prima una sua fotografia, poi una pianta, poi gli oggetti più cari delle vacanze… conchiglie, una chela di granchio, una bella poesia che diventò nostra nei momenti di nostalgia. Eccola:

VOLI LIBERA E FELICE, AL DI LA’ DEI COMPLEANNI, NEL TEMPO DEL PERSEMPRE.

Questo informale e spontaneo “angolo del ricordo” restò fino alla classe quinta: uno spazio libero sempre pieno di oggetti e scritti dei bambini. Quando lo smantellai, alla fine del ciclo scolastico, la pianta nel frattempo era cresciuta mi feci un bel pianto. Anche perché Anna mancò sempre a quel gruppo-classe, fino all’ultimo giorno.

Nel corso della terza classe subentrò nei bambini la paura di dimenticare Anna, così facemmo un collettivo sforzo di memoria per fissare immagini, sensazioni, avvenimenti che la-ci riguardavano: ne uscirono scritti assai vivi, anche con l’uso di metafore e similitudini che definirono ciò che Anna era anche nelle sfumature del suo carattere.

Nel Natale della classe quarta, la mamma di Anna ci prestò per il periodo dell’Avvento la lanterna della figlia che ci illuminò durante la lettura quotidiana delle leggende natalizie.

E ogni tanto, magicamente, dall’archivio di classe o da qualche raccoglitore, usciva un disegno o una piccola scritta di Anna a dirci timidamente come era il suo stile: “Ci sono.”

L’aver vissuto insieme questa vicenda ha incrementato l’intimità e l’affetto tra i bambini e me e li ha senz’altro arricchiti della certezza che si può attraversare anche un’esperienza dolorosa: si può piangere e consolare ed essere consolati, perdere, ricordare, ognuno a suo modo, e i modi sono tanti.